lunedì 4 novembre 2019

Avvocato stabilito - Mancanza atto di intesa nullità della procura e carenza assoluta dello ius postulandi.

Il Tribunale di Frosinone in una recente sentenza ha ritenuto fondata l'eccezione in oggetto formulata da questo studio ed argomentata come segue.
L'art. 8 del D.Lgs n. 96 del 02/02/2001, ovverosia il decreto che ha recepito ed attuato la direttiva n. 98/5/CE volta a consentire l'esercizio della professione di avvocato in uno Stato membro differente da quello in cui si è acquisita la qualifica, dispone alla lettera:
1. Nell'esercizio delle attività relative alla rappresentanza, assistenza e difesa nei giudizi civili, penali ed amministrativi, nonché nei procedimenti disciplinari nei quali e' necessaria la nomina di un difensore, l'avvocato stabilito deve agire di intesa con un professionista abilitato ad esercitare la professione con il titolo di avvocato, il quale assicura i rapporti con l'autorità adita o procedente e nei confronti della medesima e' responsabile dell'osservanza dei doveri imposti dalle norme vigenti ai difensori.

2. L'intesa di cui al comma 1 deve risultare da scrittura privata autenticata o da dichiarazione resa da entrambi gli avvocati al giudice adito o all'autorità procedente, anteriormente alla costituzione della parte rappresentata ovvero al primo atto di difesa dell'assistito”.
Occorrerà, pertanto, stabilire quali siano le conseguenze dell'omesso deposito all'atto della costituzione dell'intesa in questione sancita in una scrittura privata autenticata ovvero della dichiarazione resa da entrambi gli avvocati al Giudice adito.
I Giudici di Piazza Cavour, chiamati a pronunciarsi sull'argomento, hanno affermato la nullità della procura alle liti rilasciata a favore di un avvocato stabilito, per mancanza della necessaria intesa di affiancamento con un avvocato iscritto in Italia (Corte di Cassazione, Sezione Lavoro, ordinanza n. 30709 del 21 dicembre 2017).

Il principio di diritto fissato nel provvedimento appena richiamato consiste nell'aver ritenuta invalida la procura rilasciata ad un avvocato stabilito in difetto di una specifica intesa con un avvocato affiancante poiché l’avvocato stabilito può sì svolgere attività giudiziale in Italia ma solo se affiancato da un avvocato iscritto in Italia e tale affiancamento risulti da una specifica intesa riferita alla singola controversia; intesa che non dovrà essere generica, dovendosi ricondurre alla singola controversia oggetto di affiancamento, e che dovrà sussistere al momento della costituzione in giudizio ed essere formalizzata in una scrittura privata autenticata oppure in una dichiarazione congiunta resa dagli avvocati al Giudice adito.
L’avvocato stabilito, in altri termini, può ovviare alla firma congiunta degli atti processuali assieme al collega italiano unicamente nel caso in cui con esso abbia raggiunto un’intesa che presenti le seguenti caratteristiche: risulti da scrittura privata autenticata o da dichiarazione resa da entrambi gli avvocati al Giudice adito o all’autorità procedente, anteriormente alla costituzione della parte rappresentata, ovvero, al primo atto di difesa dell’assistito.
Solo operando con le descritte modalità si viene ad instaurare una legittima rappresentanza processuale.
La giurisprudenza di merito, richiamandosi ai numerosi pareri espressi in argomento dal CNF, in situazioni analoghe a quella di nostro interesse ha rilevato la nullità della procura conferita all’avvocato stabilito in carenza dei suddetti requisiti, in quanto ha ritenuto che, ai sensi dell’art. 8, D.Lgs. n. 96/2001, l’avvocato stabilito sia privo di un generale ed autonomo ius postulandi nel territorio italiano in mancanza di una intesa di affiancamento con un avvocato italiano riconducibile alla specifica lite (vedi su tutte Tribunale di Torino Sezione VIII Civile Sentenza 17 ottobre 2016, n. 3577 e Tribunale Milano, sentenza 04 Dicembre 2017 n. 18722).
Invero il dato testuale della norma non lascia spazio a diverse interpretazioni; In particolare, il secondo comma del citato art. 8 impone la riferibilità alla singola controversia dell’intesa di affiancamento, lasciando discrezionalità esclusivamente sulla forma utilizzabile (potendo risultare o da scrittura privata autenticata o da dichiarazione di entrambi i difensori diretta al Giudice adito). Deve quindi escludersi come la predetta norma possa ritenersi soddisfatta sulla base della sola dichiarazione resa dall’avvocato affiancante al Consiglio dell'Ordine al momento dell’iscrizione dell’avvocato stabilito in Italia (dichiarazione che, come ritenuto dal CNF, non è neppure essenziale per l’iscrizione nella sezione speciale degli avvocati stabiliti).
Di conseguenza l'avvocato stabilito che non produca entro la costituzione in giudizio della parte rappresentata la dichiarazione d'intesa con l'avvocato italiano affiancante, imposta dall'art. 8 d.lgs. n. 96/01 – norma di natura imperativa, inderogabile e con finalità pubblicistica – è privo di ius postulandi ex art. 82, comma 3, c.p.c. L'atto di citazione e la procura alle liti in calce sottoscritti dal solo avvocato stabilito sono, pertanto, affetti da nullità assoluta e insanabile, con conseguente inammissibilità dell'azione avviata. Trattasi infatti di vizio che non può essere sanato ai sensi dell'art. 182, comma 2, c.p.c. – misura applicabile solo ai difetti attinenti alla capacità processuale – né attraverso il rilascio di una nuova procura alle liti in sede di memoria ex art. 183, comma 3, n. 1, c.p.c. né attraverso la costituzione di altro avvocato.
Nello specifico, la carenza di ius postulandi dell'avvocato stabilito non dipende dai vizi della procura ad litem bensì dal divieto di rappresentare in giudizio la parte senza l'affiancamento di un avvocato italiano. La norma è infatti perentoria nell'affermare che “l'avvocato stabilito deve agire di intesa con un professionista abilitato a esercitare la professione con il titolo di avvocato”. Di talchè la fattispecie rimane del tutto estranea all’ambito di operatività dell’art. 182. comma 2°, c.p.c., che consente di sanare la procura viziata solo “sul versante” del Cliente e non anche dell’avvocato. Ci si trova, pertanto, in presenza di una procura del tutto inesistente poiché sottoscritta da avvocato straniero privo dello ius postulandi e, come tale, insanabile.
Inoltre, la possibilità di sanare il difetto/carenza di dichiarazione d’intesa si pone in netto contrasto con la ratio della norma, la quale richiede che il controllo dell’avvocato italiano sia ab origine e, all’uopo, dispone expressis verbis che la dichiarazione sia depositata “anteriormente alla costituzione della parte rappresentata ovvero al primo atto di difesa” (art. 8 c.2 d.lgs. n° 96/01).
La carenza dello ius postulandi rappresenta così un ostacolo insormontabile, dal quale discende l’inammissibilità della domanda senza possibilità di alcuna sanatoria.
A sostegno della conclusione prospettata, depone altresì l’evidente parallelo giuridico esistente tra l’ipotesi di carenza di ius postulandi dell’avvocato straniero e quella dell’avvocato non iscritto all’Albo speciale dei cassazionisti che propone un ricorso dinanzi alla Suprema Corte. Nel caso in cui si adisca il Giudice di nomofilachia pur non essendo iscritti all’Albo speciale dei Cassazionisti, il ricorso è dichiarato inammissibile poiché nullo per carenza dello ius postulandi senza alcuna possibilità di sanare il vizio ex post, ad esempio con una nomina tardiva di avvocato cassazionista che ratifichi l'operato del collega, oppure con l'iscrizione successiva e/o tardiva all'albo speciale (Cass. n. 42491/12).
Come per l’avvocato cassazionista, dunque, anche per l’avvocato stabilito lo ius postulandi è condizionato dalla presenza di specifici requisiti ulteriori rispetto al titolo di avvocato, nello specifico individuati dall’art. 8 del d.lgs. n° 96/01 (“l'avvocato stabilito deve agire di intesa con un professionista abilitato”), in mancanza dei quali il professionista non è abilitato a proporre domanda giudiziale, che per questo, ove proposta in detti termini, deve considerarsi radicalmente inammissibile
Di seguito il link della sentenza del Tribunale di Frosinone.



lunedì 1 febbraio 2016

Notifica pubblici proclami nullità inesistenza

Il carattere eccezionale della  notificazione per pubblici proclami non esonera la parte che vi ricorre ad elencare nominativamente, uno per uno, tutti i soggetti destinatari dell'atto ove possibile. Si è a lungo discusso, a tal proposito, se, quando sia ammessa tale forma di notifica, ciascuno dei destinatari debba essere in ogni caso nominativamente e singolarmente indicato ovvero si possa invece ritenere regolarmente instaurato il contraddittorio e, quindi, efficace la decisione pronunciata anche nei confronti delle persone non specificatamente individuate. Il dubbio è stato da tempo risolto in giurisprudenza, nel senso di ritenere rituale la notificazione anche senza specificazione delle generalità dei destinatari, nel caso di ricorso al procedimento in esame provocato dalla difficoltà di identificazione degli stessi; mentre, ove si verta in ipotesi di notificazione autorizzata in considerazione delle difficoltà di notifica per l'elevato numero di destinatari occorre, a pena di inesistenza della notificazione, l'indicazione specifica di ciascuno di essi (Cass. n. 121/2005, 6507/98, 5173/94).
La mancata indicazione di anche uno solo dei destinatari conosciuti o conoscibile è vizio che coinvolge l'intero giudizio, posto che questo non può ritenersi incardinato nei confronti di tutti i convenuti. Come è noto, infatti, laddove l’invalidità della notificazione sia ascrivibile alla figura meno grave della nullità, questa potrà essere sanabile o mediante la rinnovazione dell’atto di notifica stesso ovvero attraverso la costituzione in giudizio del destinatario dell’atto notificato, diversamente, qualora detta invalidità della notificazione sia riconducibile all’alveo della figura più grave della inesistenza, in questo caso il vizio non potrà  essere suscettibile di sanatoria, nemmeno attraverso la costituzione in giudizio dello stesso destinatario dell’atto notificato, comportando l’inefficacia giuridica dell’atto giudiziario notificato proprio perché la notificazione inesistente è incapace di produrre qualsivoglia effetto giuridico (Cass. n. 1750 del 2011).
In buona sostanza, la inesistenza della notificazione, a differenza della nullità, impedisce ogni sanatoria stante l'impossibilità di presumere iuris tantum la conoscenza della pendenza della lite da parte del destinatario.

domenica 17 gennaio 2016

CTU consulenza deducente e consulenza percipiente.

La giurisprudenza di legittimità e di merito ha reiteratamente precisato, in relazione alla consulenza tecnica di ufficio, come essa costituisca meramente un mezzo di ausilio per il giudice, volto alla più approfondita conoscenza dei fatti già provati dalle parti, la cui interpretazione richiede nozioni tecnico scientifiche, e non un mezzo di soccorso volto a sopperire all'inerzia delle parti medesime; allo stesso modo è oramai da tempo notorio come la CTU non possa avere carattere esplorativo e debba essere intesa solamente quale strumento ad adiuvandum del Giudice e non ad explorandum.
In sintesi, il Consulente tecnico, in virtù di particolari competenze cognitive in discipline specifiche, è chiamato a consigliare il Giudice, durante il processo, emettendo pareri che forniscano un quadro esaustivo della fattispecie, sulla base dell’esame degli elementi probanti forniti dalle parti. 
Giurisprudenza e, in particolar modo, dottrina hanno distinto due prerogative dell'ausiliario, individuate in: a) attività di deduzione, da fatti già acquisiti al processo, di fatti ignoti sulla base di sapere specialistici (consulenza deducente); b) attività di percezione ove per la percezione sono necessari saperi tecnici e specialistici (consulenza percipiente).
Nel primo caso la CTU figura quale mezzo di indagine volta ad accertare fatti già provati dalle parti e non costituisce la fonte di alcuna prova; nel secondo caso, invece, essa assume una portata leggermente più ampia, sebbene giammai ascenda la rango di prova, poiché è finalizzata ad accertare fatti non altrimenti accertabili se non per mezzo di particolari competenze specialistiche di settore. 
Nel secondo caso il Giudice può affidare al consulente non solo l’incarico di valutare i fatti accertati o dati per esistenti (consulente deducente), ma anche quello di accertare i fatti stessi (consulente percipiente), ed in tal caso è necessario e sufficiente che la parte deduca il fatto che pone a fondamento del suo diritto e che il giudice ritenga che l’accertamento richieda specifiche cognizioni tecniche (Cass. Civ., Sez. III, 13/03/2009 n. 6155).
Anche in tale ipotesi, si badi bene, la consulenza tecnica rimane un mezzo di ausilio del giudice volto alla più approfondita conoscenza di fatti già provati dalle parti, la cui interpretazione richiede nozioni tecnico scientifiche non in possesso dell’organo Giudicante, essa, invero, non diviene mai un mezzo di soccorso volto a sopperire l’inerzia delle parti. Un’eventuale ammissione della CTU in tal senso comporterebbe inevitabilmente “lo snaturamento dell’istituto previsto dal codice di procedura, il mancato rispetto della posizione paritaria delle parti nel processo, un allungamento dei tempi processuali, con palese violazione del giusto processo, anche sotto il profilo della ragionevole durata, tutelato dall’art. 111 della Costituzione” (Cass. Civ., Sez. III, 19/04/2011 n. 8989).
Acclarata la rilevanza della Consulenza Tecnica come mero strumento di accertamento di situazioni rilevabili con il concorso di determinate cognizioni tecniche e, in ogni caso, fermo restando che le valutazioni espresse dal CTU non hanno efficacia vincolante per il Giudice e che essa non rientra nella disponibilità delle parti ma è rimessa al potere discrezionale del Magistrato, si può addivenire alla consulenza percipiente solo allorché si verta in situazioni rilevabili unicamente con il concorso di determinate cognizioni tecniche ed i normali mezzi rendano impossibile o estremamente difficile il raggiungimento della prova, come, ad esempio, in caso di danno alla salute (Cass. Civ. Sez. III, 19/01/2006 n. 1020; Cass. Civ., Sez. III, 07/05/2015 n. 9249).

giovedì 10 dicembre 2015

Opposizione a decreto ingiuntivo, attore formale e sostanziale.

L'opposizione a decreto ingiuntivo dà luogo ad un ordinario giudizio di cognizione che si svolge secondo le norme del procedimento ordinario, con la conseguenza che il Giudice dell'opposizione è investito del potere-dovere di pronunciare sulla pretesa fatta valere con la domanda di ingiunzione e sulle eccezioni formulate ex adverso; in tale giudizio, secondo i principi operanti in tema di onere della prova, incombe su chi fa valere un qualsiasi diritto in giudizio il compito di fornire gli elementi probatori a sostegno della propria pretesa.
E ciò, in quanto, nel giudizio de quo, solo da un punto di vista formale, l'opponente assume la posizione di attore e l'opposto quella di convenuto, mentre, in termini sostanziali, è il creditore ad avere veste sostanziale di attore, con i conseguenti oneri probatori, a fronte dell'opponente-convenuto cui compete di addurre eventuali fatti estintivi, impeditivi o modificativi del credito; di talchè le difese con le quali l'opponente miri ad evidenziare l'inesistenza, l'invalidità o la non azionabilità del credito non si collocano sul versante della domanda - che resta quella prospettata dal creditore nel ricorso per ingiunzione - ma configurano delle eccezioni (vedi ex plurimis Cass. Civ., Sez. III, 30/03/2010, n. 7624).

domenica 1 novembre 2015

Lite temeraria ex art. 96, terzo comma, c.p.c..

La novella all’art. 96 c.p.c. ha introdotto, al terzo comma, una vera e propria pena pecuniaria, indipendente sia dalla domanda di parte, sia dalla allegazione e dalla prova del danno causalmente derivato alla condotta processuale dell’avversario (Cass. Civ. Sez. I,  sentenza n. 17902 del 30/7/2010).
Si tratta di una norma che introduce nell’ordinamento una forma di danno punitivo per scoraggiare l’abuso del processo e preservare la funzionalità del sistema giustizia, ciò che esclude la necessità di un danno di controparte, pur se la condanna è prevista a favore di quest’ultima e non dello Stato. La pronuncia ex art. 96 comma 3 c.p.c. presuppone solo il requisito soggettivo della malafede o della colpa grave, che concretizzano la temerarietà della lite.  

giovedì 29 ottobre 2015

Notifica errore nominativo destinatario.

Il semplice errore materiale relativo al nominativo del destinatario determina o meno la nullità della notificazione?
La Corte di Cassazione è intervenuta più volte sull'argomento, dando corpo ad un orientamento granitico, secondo il quale  “l'errore sulle generalità del convenuto o dell'appellato, contenuto nella citazione nel giudizio di primo o secondo grado e nelle rispettive relate di notificazione della medesima, non comporta la nullità di nessuno dei due atti, qualora sia possibile identificare con certezza il reale destinatario sulla scorta degli elementi contenuti nella citazione o nella relata” (Cass. Civ., Sez. II,  01/08/2013 n. 18427).
Ne consegue, secondo il giudizio più volte espresso dai Giudici di legittimità, che l’errore sulle generalità del destinatario rileva solo quando esso abbia determinato un’incertezza assoluta in ordine al soggetto contro il quale è rivolta la domanda. Quando, invece, non vi siano incertezze  l’errore materiale non rileva. Non vi è nullità, dunque, qualora il destinatario sia identificabile con certezza in base a tutti gli altri elementi contenuti nella citazione o nella relata di notifica (ex multis Cass. Civ. n. 6352/2014; n. 7514/2007; n. 28451/2013; n. 8344/2004).
In estrema sintesi, si può affermare senza tema di smentita che l'errore sulle generalità del destinatario è irrilevante in tutti quei casi in cui l’atto è comunque idoneo al raggiungimento dello scopo.

L'atto d'appello post novella

La novella del 2012 ha inciso, indubbiamente, sia sull’atto introduttivo del giudizio di appello in sé sia sul procedimento. Incide sull'atto perché viene ora richiesta una redazione più mirata su come si vorrebbe fosse la pronuncia impugnata, piuttosto che solamente sul cosa in essa non sia corretto e perché vengono bandite del tutto le censure che siano meramente teoriche, dovendosi invece spiegare la rilevanza di quanto dedotto al fine di ottenere una pronuncia più favorevole; incide, altresì, sul procedimento  dovendosi fornire al gravame una sostanza tale da poter superare con successo l’ostacolo del filtro di ammissibilità di cui agli artt. 342 e 348 bis c.p.c..
La nuova formulazione dell'art. 342 c.p.c. prevede, rispetto al passato, due importanti novità: a) l'eliminazione del riferimento all’esposizione sommaria dei fatti; b) l'eliminazione del riferimento all’esposizione degli specifici motivi di gravame.
La prima delle due novità suddette comporta giocoforza, stante il contestuale permanere del richiamo all'art. 163 c.p.c., l'onere di esporre i fatti di causa compiutamente; la seconda di esse, quella che forse più ci interessa da vicino, prescrive invece che l'appello debba essere correttamente motivato.
Si pone, così, l’assoluta necessità che comunque emergano “con immediatezza” dalla lettura dell’appello nel suo complesso:
a) le parti della sentenza (e non solo del dispositivo) che si vogliono modificate in sede di gravame;
b) le specifiche ragioni di fatto e diritto che sorreggono ciascuna richiesta;
c) il risultato finale che si intende ottenere tramite il gravame.
La modifica più significativa all'art. 342 c.p.c. apportata dalla riforma del 2012 deve essere ravvisata nel passaggio dagli “specifici motivi” alla “motivazione”.
La “motivazione” rispetto ai “motivi specifici” fa sì che accanto alle critiche l’atto di appello debba contenere pure le proposte di modifica, andando così ad assomigliare più ad un provvedimento giurisdizionale, in particolare ad una sentenza, piuttosto che ad un atto di parte; l’atto di appello dovrà, pertanto, essere costruito, secondo quanto affermato da autorevole dottrina, come una sorta di “proposta di sentenza”.
Non è, dunque, fuori luogo affermare che il nuovo atto di appello configurato dall’art. 342 c.p.c. contenga una parte “rescindente” ed una “rescissoria”, ovvero oltre al criticare deve anche costruire, laddove, per contro, ante novella l’atto processuale era meramente costruito in “forma rescindente” poiché si colpiva solo la sentenza di primo grado indicando cosa non andava.
La Corte d'Appello di Roma, chiamata a pronunciarsi sull'argomento ed in linea con quanto appena affermato ha statuito che “per superare il vaglio di ammissibilità, i ricorsi devono contenere:
- un profilo volitivo, cioè indicare espressamente le parti del provvedimento che si vogliono impugnare, per tali intendendosi non soli i capi della decisione, ma anche tutti i singoli segmenti o sottocapi che la compongono quando assumano un rilievo autonomo o di causalità rispetto alla decisione;
- un profilo argomentativo affinché il ricorso suggerisca le modifiche che il ricorrente vorrebbe fossero apportate al provvedimento;
- un profilo di casualità, dovendo il ricorso necessariamente evidenziare il rapporto di causa ed effetto fra la violazione di legge denunciata e l'esito della lite” (Corte d'Appello di Roma, Sez. Lav, sentenza n. 377 del 15/01/2013).
Di identico avviso si è mostrata anche la Corte d'Appello di Salerno, la quale ha ribadito come la nuova formulazione dell'art. 342 c.p.c. “obbliga l'appellante ad indicare in primo luogo le parti della sentenza delle quali chiede la riforma, nonché le modifiche richieste, sicché il lavoro assegnato al giudice dell'appelo appare alquanto simile ad un preciso e mirato intervento di ritaglio della parti di sentenza di cui si imponga l'emendamento, con conseguente innesto delle parti modificate, con operazione di correzione quasi chirurgica del testo della sentenza di primo grado” (Corte d'Appello di Salerno, sentenza n. 139 del 01/02/2013).