giovedì 10 dicembre 2015

Opposizione a decreto ingiuntivo, attore formale e sostanziale.

L'opposizione a decreto ingiuntivo dà luogo ad un ordinario giudizio di cognizione che si svolge secondo le norme del procedimento ordinario, con la conseguenza che il Giudice dell'opposizione è investito del potere-dovere di pronunciare sulla pretesa fatta valere con la domanda di ingiunzione e sulle eccezioni formulate ex adverso; in tale giudizio, secondo i principi operanti in tema di onere della prova, incombe su chi fa valere un qualsiasi diritto in giudizio il compito di fornire gli elementi probatori a sostegno della propria pretesa.
E ciò, in quanto, nel giudizio de quo, solo da un punto di vista formale, l'opponente assume la posizione di attore e l'opposto quella di convenuto, mentre, in termini sostanziali, è il creditore ad avere veste sostanziale di attore, con i conseguenti oneri probatori, a fronte dell'opponente-convenuto cui compete di addurre eventuali fatti estintivi, impeditivi o modificativi del credito; di talchè le difese con le quali l'opponente miri ad evidenziare l'inesistenza, l'invalidità o la non azionabilità del credito non si collocano sul versante della domanda - che resta quella prospettata dal creditore nel ricorso per ingiunzione - ma configurano delle eccezioni (vedi ex plurimis Cass. Civ., Sez. III, 30/03/2010, n. 7624).

domenica 1 novembre 2015

Lite temeraria ex art. 96, terzo comma, c.p.c..

La novella all’art. 96 c.p.c. ha introdotto, al terzo comma, una vera e propria pena pecuniaria, indipendente sia dalla domanda di parte, sia dalla allegazione e dalla prova del danno causalmente derivato alla condotta processuale dell’avversario (Cass. Civ. Sez. I,  sentenza n. 17902 del 30/7/2010).
Si tratta di una norma che introduce nell’ordinamento una forma di danno punitivo per scoraggiare l’abuso del processo e preservare la funzionalità del sistema giustizia, ciò che esclude la necessità di un danno di controparte, pur se la condanna è prevista a favore di quest’ultima e non dello Stato. La pronuncia ex art. 96 comma 3 c.p.c. presuppone solo il requisito soggettivo della malafede o della colpa grave, che concretizzano la temerarietà della lite.  

giovedì 29 ottobre 2015

Notifica errore nominativo destinatario.

Il semplice errore materiale relativo al nominativo del destinatario determina o meno la nullità della notificazione?
La Corte di Cassazione è intervenuta più volte sull'argomento, dando corpo ad un orientamento granitico, secondo il quale  “l'errore sulle generalità del convenuto o dell'appellato, contenuto nella citazione nel giudizio di primo o secondo grado e nelle rispettive relate di notificazione della medesima, non comporta la nullità di nessuno dei due atti, qualora sia possibile identificare con certezza il reale destinatario sulla scorta degli elementi contenuti nella citazione o nella relata” (Cass. Civ., Sez. II,  01/08/2013 n. 18427).
Ne consegue, secondo il giudizio più volte espresso dai Giudici di legittimità, che l’errore sulle generalità del destinatario rileva solo quando esso abbia determinato un’incertezza assoluta in ordine al soggetto contro il quale è rivolta la domanda. Quando, invece, non vi siano incertezze  l’errore materiale non rileva. Non vi è nullità, dunque, qualora il destinatario sia identificabile con certezza in base a tutti gli altri elementi contenuti nella citazione o nella relata di notifica (ex multis Cass. Civ. n. 6352/2014; n. 7514/2007; n. 28451/2013; n. 8344/2004).
In estrema sintesi, si può affermare senza tema di smentita che l'errore sulle generalità del destinatario è irrilevante in tutti quei casi in cui l’atto è comunque idoneo al raggiungimento dello scopo.

L'atto d'appello post novella

La novella del 2012 ha inciso, indubbiamente, sia sull’atto introduttivo del giudizio di appello in sé sia sul procedimento. Incide sull'atto perché viene ora richiesta una redazione più mirata su come si vorrebbe fosse la pronuncia impugnata, piuttosto che solamente sul cosa in essa non sia corretto e perché vengono bandite del tutto le censure che siano meramente teoriche, dovendosi invece spiegare la rilevanza di quanto dedotto al fine di ottenere una pronuncia più favorevole; incide, altresì, sul procedimento  dovendosi fornire al gravame una sostanza tale da poter superare con successo l’ostacolo del filtro di ammissibilità di cui agli artt. 342 e 348 bis c.p.c..
La nuova formulazione dell'art. 342 c.p.c. prevede, rispetto al passato, due importanti novità: a) l'eliminazione del riferimento all’esposizione sommaria dei fatti; b) l'eliminazione del riferimento all’esposizione degli specifici motivi di gravame.
La prima delle due novità suddette comporta giocoforza, stante il contestuale permanere del richiamo all'art. 163 c.p.c., l'onere di esporre i fatti di causa compiutamente; la seconda di esse, quella che forse più ci interessa da vicino, prescrive invece che l'appello debba essere correttamente motivato.
Si pone, così, l’assoluta necessità che comunque emergano “con immediatezza” dalla lettura dell’appello nel suo complesso:
a) le parti della sentenza (e non solo del dispositivo) che si vogliono modificate in sede di gravame;
b) le specifiche ragioni di fatto e diritto che sorreggono ciascuna richiesta;
c) il risultato finale che si intende ottenere tramite il gravame.
La modifica più significativa all'art. 342 c.p.c. apportata dalla riforma del 2012 deve essere ravvisata nel passaggio dagli “specifici motivi” alla “motivazione”.
La “motivazione” rispetto ai “motivi specifici” fa sì che accanto alle critiche l’atto di appello debba contenere pure le proposte di modifica, andando così ad assomigliare più ad un provvedimento giurisdizionale, in particolare ad una sentenza, piuttosto che ad un atto di parte; l’atto di appello dovrà, pertanto, essere costruito, secondo quanto affermato da autorevole dottrina, come una sorta di “proposta di sentenza”.
Non è, dunque, fuori luogo affermare che il nuovo atto di appello configurato dall’art. 342 c.p.c. contenga una parte “rescindente” ed una “rescissoria”, ovvero oltre al criticare deve anche costruire, laddove, per contro, ante novella l’atto processuale era meramente costruito in “forma rescindente” poiché si colpiva solo la sentenza di primo grado indicando cosa non andava.
La Corte d'Appello di Roma, chiamata a pronunciarsi sull'argomento ed in linea con quanto appena affermato ha statuito che “per superare il vaglio di ammissibilità, i ricorsi devono contenere:
- un profilo volitivo, cioè indicare espressamente le parti del provvedimento che si vogliono impugnare, per tali intendendosi non soli i capi della decisione, ma anche tutti i singoli segmenti o sottocapi che la compongono quando assumano un rilievo autonomo o di causalità rispetto alla decisione;
- un profilo argomentativo affinché il ricorso suggerisca le modifiche che il ricorrente vorrebbe fossero apportate al provvedimento;
- un profilo di casualità, dovendo il ricorso necessariamente evidenziare il rapporto di causa ed effetto fra la violazione di legge denunciata e l'esito della lite” (Corte d'Appello di Roma, Sez. Lav, sentenza n. 377 del 15/01/2013).
Di identico avviso si è mostrata anche la Corte d'Appello di Salerno, la quale ha ribadito come la nuova formulazione dell'art. 342 c.p.c. “obbliga l'appellante ad indicare in primo luogo le parti della sentenza delle quali chiede la riforma, nonché le modifiche richieste, sicché il lavoro assegnato al giudice dell'appelo appare alquanto simile ad un preciso e mirato intervento di ritaglio della parti di sentenza di cui si imponga l'emendamento, con conseguente innesto delle parti modificate, con operazione di correzione quasi chirurgica del testo della sentenza di primo grado” (Corte d'Appello di Salerno, sentenza n. 139 del 01/02/2013).